Le Vie della Lana

Transumanza vuol dire greggi che migrano “di là dalla terra” consueta, cambio tra due sedi in differenti periodi dell’anno; proprietà del gregge; utilizzo diretto dei suoi prodotti ed orientamento verso economia di mercato sono questi i quattro capisaldi alla base della transumanza.

La caratteristica della transumanza era lo spostamento del bestiame, soprattutto pecore, dalle montagne abruzzesi fino a giungere nelle pianure pugliesi e viceversa. I transumanti percorrevano lunghe vie erbose - i tratturi - divenuti in età moderna un importante sistema viario da utilizzare come greenway.

Il nome tratturo entra nella storia per la prima volta con i Codici di Teodosio e di Giustiniano per indicare il privilegio accordato anche ai pastori transumanti, di poter utilizzare gratuitamente il suolo di proprietà dello Stato. Ma solo con l’Unità d’Italia i tratturi più importanti (l’Aquila – Foggia, Celano – Foggia, Pescasseroli – Candela e Castel di Sangro – Lucera) divennero strade nazionali, una rete viaria disposta come i meridiani ed i paralleli capace di coprire uniformemente tutto il territorio. La loro larghezza poteva variare dai 55 metri per quelli piccoli per raggiungere i 111 metri per i tratturi più grandi. Queste strade, dette anche vie armentizie, videro la luce per un bisogno economico e sociale, così come la transumanza le cui origini si fanno risalire al periodo olocenico.

Secondo Fabio Pittore (III sec a. C) i Romani scoprirono la ricchezza prodotta dalla pastorizia transumante quando vennero in contatto con i Sanniti. Molti studiosi ritengono che l’insorgere delle controversie fra questi due popoli sia da ricondurre a dispute di origine pastorale. Sicuramente la transumanza era tra le attività fondamentali dei Sanniti: non solo per i mestieri legati alla pastorizia tradizionalmente più “maschili”, ma anche le donne sannite avevano sempre in casa la conocchia per filare la lana e un telaio per tesserla e farne capi di abbigliamento e coperte. Successivamente, i Romani, considerando la pastorizia un’attività molto redditizia, ne fecero un settore importante della loro economia (“pecus pecunia”).

La caduta dell’impero romano significò la dismissione dell’allevamento ovino e, nel periodo alto medievale, i ricoveri per gli animali, presenti nei tratturi, divennero dimore per le persone.

E se a riorganizzare piccole aziende miste fra pastorizia e agricoltura furono i monaci benedettini, solo nel 1447 con l’istituzione a Foggia da parte di Alfonso d’Aragona, re di Napoli, della “Regia Dogana della mena delle pecore” (che aveva fra i suoi compiti quello di tutelare i percorsi tratturali tramite il controllo e le reintegre) i tratturi divennero vie fondamentali di comunicazione e di scambio di merci e di idee. La transumanza diviene obbligatoria, il Tavoliere delle Puglie venne suddiviso tante zone di pascolo, “locazioni”, da dare in affitto ai “locati”, i proprietari dei greggi.

È l’epoca della civiltà della transumanza, sviluppatasi tra il XV e il XIX secolo, a cui si deve gran parte del patrimonio culturale, artistico ed economico dell’Abruzzo. Una civiltà costruita anche - non bisogna dimenticarlo - sulla sofferenza di numerose generazioni di pastori la cui vita è trascorsa nella prolungata lontananza dalla propria casa.
Poi con l’avvento dei Francesi a Napoli e la soppressione nel 1806 della Dogana, il Tavoliere di Puglia fu suddiviso fra gli “armentari”, che progressivamente trasformarono l’allevamento delle pecore in favore della coltivazione del grano e dell’agricoltura in generale. I tratturi persero, così, la loro funzione originaria.

Protagonisti della transumanza erano i pastori, la cui comunità aveva all’interno delle vere e proprie gerarchie da seguire. Ognuno, in relazione all’età e alle capacità, aveva delle mansioni da svolgere. Per un gregge di 2000 esemplari era necessario che il padrone avesse un uomo di fiducia, il massaro, una sorta di capo del personale responsabile non solo della distribuzione dei lavori ma anche delle paghe degli altri dipendenti. Asini, muli e cavalli erano sorvegliati dai butteri che avevano anche il compito di procurare la legna e tutto ciò che era necessario per le necessità quotidiane. Portare il gregge al pascolo, guidarlo e sorvegliarlo, con l’aiuto dei cani era compito dei pastori, mentre la produzione della ricotta e del formaggio pecorino spettava al caciaro. Questa scala gerarchica si concludeva con i garzoni, ragazzi tra i 9 e 10 anni, destinati a compiere i lavori più umile come spingere le pecore verso il guado, tenendole unite, durante la mungitura.

Il pane durissimo è il cibo dei pastori. Due i piatti che mangiavano con maggiore frequenza: pane ammortito nell’acqua e condito con sale e olio detto l’acquè – sèle e la muscische, ottenuta dalla carcasse della pecora, fatta essiccare e successivamente tagliata a strisce e conservata.

I pastori dormivano per terra avvolgendosi nel loro mantello o nella coperta. Nelle zone collinari avevano delle dimore temporanee; accanto al recito che ospitava le pecore c’era un altro nucleo che, oltre ad essere utilizzato come riparo notturno, serviva anche come “laboratorio” per la lavorazione del latte. Per quanto riguarda il corredo era lo stesso pastore che lo confezionava attraverso la lavorazione del cuoio e della lana (vedi nota 1 appendice).

Il pastore doveva lavare, tosare e marchiare il gregge. Per quanto riguarda la prima operazione, detta anche saltata, consisteva nella pulitura del vello in un ruscello. Le pecore venivano spinte nell’acqua per poi passare dall’altra sponda. Se il gregge si trovava in una zona con abbondante acqua allora veniva lavato tre volte in tre giorni successivi perché la lana lavate tre volte aveva maggiore valore.

Tra aprile e maggio (vedi diagramma nota 2 in appendice), prima di ritornare in Abruzzo, si svolgeva il rito della tosatura. Le squadre di tosatori impiegavano dai 15 ai 25 minuti per portare a termine il lavoro. Si iniziava col tagliare la lana del petto e della pancia per poi asportar l’intero vello.

Una volta tosato l’animale veniva marchiato per poter identificare l’”azienda” di appartenenza. Il marchio, con le iniziali del proprietario e dei decori di riconoscibilità, era in legno e bagnato nella vernice colorata in modo da rimanere ben visibile sino alla tosatura dell’anno successivo.

Territorio

Lo studio che presentiamo si situa in un tratto topico del Tratturo Pescasseroli-Candela.

Quello che partendo dal centro di Pescasseroli, nel Parco Nazionale d’Abruzzo, giunge al suo confine Meridionale in Comune di Alfedena, in prossimità del Casale della Zittola, in direzione del Molise e di Isernia.

La proposta è quella di eleggere il Tratturo Pescasseroli-Candela, nella sua interezza, a primo Parco Nazionale che investa il territorio di un tratturo.
Perché proprio il Pescasseroli-Candela?

Per la sua più facile ed immediata capacità di comunicazione. Esso nasce nel centro più importante del più conosciuto Parco nazionale italiano, copre quattro Regioni, e incontra nel suo percorso centri noti come Alfedena, Castel di Sangro, Isernia, Boiano. Attraversa poi gli scavi dell’antica Saepinum ed entra in Campania per le a ampie e fertili aree collinari situate a nord est di Benevento, nell’ambito dei Comuni di Morcone, S.Croce del Sannio (con preziosi centri storici), Circello, Castelpagano, e Reino. Raggiunge, infine, a Candela la porta della Puglia primo casello dell’autostrada Bari-Napoli.

Ciò detto, a ulteriore sottolineatura della scelta operata, va ricordato quanto si sta realizzando proprio nel tratto Campano, ad opera della Comunità Montana dell’Alto Tammaro.
Come si diceva, a volte l’iniziativa fortemente motivata di politici e funzionari può fare molto. E con questo dimostrare la fattibilità dell’opera completa che fortemente auspichiamo.
Con un’azione eccezionale e meritoria la Comunità Montana dell’Alto Tammaro ha pienamente recuperato 25 chilometri del Pescasseroli-Candela nei citati Comuni di Morcone, S.Croce del Sannio, Circello, Castelpagano, e Reino.

In questi 25 Km il tratturo è stato reintegrato e restaurato. Sono stati ripristinati tutti gli elementi accessori quali i cippi tratturali, i muretti a secco, le siepi di delimitazione. La vegetazione infestante è stata eliminata, preoccupandosi poi di risolvere il problema fondamentale della manutenzione, che consiste nel mantenere il suolo del tratturo a destinazione e aspetto prativo. La manutenzione è stata risolta con la collaborazione dei proprietari frontisti e delle associazioni di allevatori e pastori. I fondi PSR sono stati utilizzati per attribuire 600 euro l’anno, a ettaro per ogni UBA ( unità di bestiame adulto che consumino 18 chili di erbe al giorno).

Molto significativo il contributo di 200 euro per ogni capo appartenente a razze in via di estinzione, quali la “vacca podolica”, autoctona e di antica origine (pur producendo poco latte ma di altissima qualità, è estremamente rustica e frugale, adatta a vivere sempre all’aperto).

Questi risultati sono il frutto di un progetto-pilota sul tratturo Pescasseroli-Candela nato dalla collaborazione tra Comunità Montana ed ANGEA (Associazione Nazionale delle Guide del Turismo Equestre), che ha scelto i tratturi come luoghi di elezione delle "Ippovie". Il recupero e la manutenzione nell’ambito di un progetto-pilota limitato alla sola Campania denuncia i limiti di un operare parcellizzato, ma allo stesso tempo dimostra la piena fattibilità di un progetto unitario, interregionale supportato dal livello nazionale, mediante, ad esempio. l’idea del Parco Nazionale del Tratturo Pescasseroli-Candela.

L’intervento nazionale lo si può, peraltro, già ritrovare nell’opera del Corpo Forestale dello Stato, che chiamato dalla Comunità Montana Alto Tammaro, ha provveduto al riallineamento dei cippi tratturali e sostanzialmente alla ridefinizione e riappropriazione del tracciato.

Anche il Molise si muove con benemerito spontaneismo. La legge molisana n 9/97 (tutela valorizzazione e gestione del demanio tratturale) prevede che comunque anche in casi di dismissione o perdita dei terreni tratturali venga recuperata una fascia di percorribilità di 15 metri. La normativa regionale consente anche la gestione diretta dei suoli fratturali da parte di associazioni senza scopo di lucro. Tutte le associazioni ambientaliste del Molise insieme a CIA (Confederazione Italiana Agricoltura) e ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) si sono accordate per chiedere la gestione diretta ottenendo il consenso dell’Ufficio Tratturi dell’Assessorato all’Agricoltura ed il parere favorevole della Soprintendenza Archeologica. Ancora una volta è l’ANGEA che partendo dall’esperienza campana spinge per realizzare l’Ippovia sul tratturo anche in Molise, conformandosi alle regole di questa regione.

In Molise il percorso del tratturo può dividersi in tre tratte: quella che va dal comune di Alfedena fino ad Isernia che coincide sostanzialmente con il vecchio percorso della SS17, oggi limitata al solo traffico locale e sostituita da una superstrada che transita per Colli al Volturno. Poi il tracciato che presenta gravi problemi di recupero nel tratto tra Boiano e Guardiaregia. Ed infine il tratto Guardiaregi-Saepinum-confine campano, del tutto integro e pienamente recuperabile.

La tratta molisana viene percorsa ogni anno integralmente per iniziativa delle ACLI, quasi a testimoniare ogni volta che la continuità esiste e che il grande progetto unitario è possibile.

Il Molise infine ha reperito 360mila euro annui tramite i finanziamenti ordinari.

Più indietro l’Abruzzo e quasi assente la Puglia da questo impegno, ma dai pochi cenni sull’attuale situazione di conservazione dei tratturi e di gestione attuata o “tentata” si comprende come vi siano ampie condizioni per affrontare in modo organico il recupero e la fruizione per l’intera comunità del percorso del percorso Pescasseroli-Candela.

Ecco dunque il quadro nel quale si inserisce il presente studio, che pur limitato al censimento delle architetture tratturali, concorre anch’esso alla ricomposizione di un programma generale di azione.

E con un apporto culturale molto rilevante, poiché il raccordo tra il tracciato ed i beni culturali architettonici, archeologici e monumentali, è tema assai delicato, che dopo il censimento impone una metodologia di conservazione e di intervento sul territorio.

Prodotti tipici

La vita nei paesi si è strutturata su una rigida divisione dei compiti tra quelli maschili (gli uomini facevano il pastore e, dall’età dei nove anni, lasciavano il proprio paese a settembre per tornarvi a giugno) e quelli femminili dedicati alla coltivazione dei campi, all’allevamento di qualche animale ( pecore e capre “pagliarole” (non transumanti), maiali e galline, conigli e tacchini ), alla cura dei bambini, degli anziani e della casa (bucato, pulizia ecc).

Conseguenza della lontananza degli uomini era un forte matriarcato, che ha lasciato traccia anche nel presente.

La tradizione gastronomica del territorio è legata, quindi, a piatti semplici derivanti dalle coltivazioni locali e dall’allevamento degli animali da cortile.

A partire dalla diffusione delle produzioni “americane” (patate, granturco, pomodori ecc.) che è avvenuta nel territorio montano abruzzese solo nel corso del XVII, XVIII secolo, le famiglie del territorio basavano interamente la propria sopravvivenza su ciò che riuscivano a coltivare nei loro orti (unendo a tal fine coltivazioni antiche come verdure e legumi a coltivazioni “nuove” come patate e granturco) o su quanto riuscivano ad avere dai propri animali ( uova ecc). 

Enogastronomici

  • gnocchetti con orapi (ovunque a maggio-giugno);
  • orapi e fagioli;
  • ravioli ricotta e spinaci (ovunque);
  • formaggi e ricotta dello stazzo ( Pescasseroli, Passo Godi-Villetta Barrea);
  • pecorino abruzzese;
  • ricotta scamosciata;
  • micischia;
  • arrosticini di pecora (ovunque);
  • salame di pecora;
  • gnomarelli di fegato d’agnello;
  • coratella;
  • crostata di ricotta;
  • fiadone (pasta sfoglia con pecorino, miele, frutta secca a Scontrone);
  • ferratelle con ricotta, miele e nocelle (Museo della transumanza a Villetta Barrea);
  • ricotta e centerbe;
  • ricotta e fragoline di bosco/lamponi (Museo della Transumanza a Villetta);
  • pecorino e miele di syderitis/santoreggia/millefiori;
  • Vino “Pecorino” (prodotto nel teramano con uve provenienti da terreni concimate dalle pecore)

Artigianali

  • bastoni dei pastori;
  • la rete della transumanza;
  • oggetti di ferro battuto con raffigurazioni della pecora (battenti dei portoni), il collare dei cani pastore;
  • bevi se puoi (anfora di ceramica con segreto area della transumanza);
  • fiscelle per la ricotta in giunco;
  • sculture in pietra sulla transumanza;
  • manufatti di lana di pecora: copriletto, coperte, gilet, giacconi, borse d’acqua calda, gomitoli di lana ecc)

Ricette

La tradizione gastronomica del territorio è legata, quindi, a piatti semplici derivanti dalle coltivazioni locali e dall’allevamento degli animali da cortile. A partire dalla diffusione delle produzioni “americane” (patate, granturco, pomodori ecc.) che è avvenuta nel territorio montano abruzzese solo nel corso del XVII, XVIII secolo, le famiglie del territorio basavano interamente la propria sopravvivenza su ciò che riuscivano a coltivare nei loro orti (unendo a tal fine coltivazioni antiche come verdure e legumi a coltivazioni “nuove” come patate e granturco) o su quanto riuscivano ad avere dai propri animali ( uova ecc).

In un territorio dove in estate si riversavano diversi milioni di pecore, non venivano utilizzati quasi mai nell’alimentazione delle famiglie locali carne o formaggi ovini, perché questi prodotti erano destinati al mercato, e tutt’al più il pastore riusciva a portare, di tanto in tanto, a casa, un pezzo di “mucischia”(quando la pecora moriva, i pastori la facevano seccare per molti giorni, esponendola all’aria e insaporendola con il sale e le erbe di montagna), una forma di formaggio (“pecorino”), e una ricottina. Solo in straordinarie occasioni che riguardavano tutto il paese, si usava festeggiare con “u’ cucnegl’e”, (una specie di pecora al cotturo) e gli arrosticini cotti sulla brace.

La ricetta del “cucnegl’e”: mettere nella pentola la carne di pecora vecchia con molta acqua e sale. Durante la cottura schiumare più volte per togliere il grasso e quando il brodo è limpido aggiungere il lardo battuto con l’aglio e un po’ di peperoncino, Servire la carne accompagnata dal brodo.

I pastori quando tornavano dalla Puglia e si recavano sui pascoli montani, approntavano presso lo stazzo un piccolo orto temporaneo per la produzione di qualche ortaggio che integrasse la magra e monotona dieta di montagna. E un loro piatto, che è diventato una specialità locale, utilizzava gli orapi, una specie di spinaci selvatici che cresce nei prati di montagna su cui hanno pascolato le pecore.

La ricetta della minestra di orapi e fagioli: mettere a bagno i fagioli la sera prima, dopo averli lavati e ricoprirli di acqua. Metterli a cuocere lentamente fino a cottura e poi salarli. Far soffriggere olio, peperoncino e aglio e aggiungere i fagioli insieme a del pomodoro. Lessare gli orapi, scolarli e tagliarli in piccole parti e poi mescolarli ai fagioli. Servire con dei pezzetti di pane abbrustolito sul fuoco a legna

Fra i piatti tradizionali di uso familiare, un piatto molto frequente era costituito dalle patate tagliate a pezzetti, insaporite da qualche pezzetto di maiale e condite con la ventresca, con l’aggiunta di uno spicchio di aglio, un po’ di rosmarino, sale e peperoncino(“ patan alla ingorda”). Oppure si preparava spesso un piatto di verdura o dei pomodori maturi con patate e cipolle. Accanto al fuoco vi era frequentemente situata la pignatta per la cottura dei legumi. La pasta veniva di solito fatta a mano e solo nei giorni festivi, con l’aggiunta di qualche uovo, venivano preparate le “sagne”. Nei dolci per le feste, erano utilizzate spesso noci e nocelle che abbondano nel territorio. Si usavano anche le cotogne per fare la cotognata o il liquore di “ratafia” che si preparava con le amarene o con le cotogne.
 
Una volta alla settimana era la volta del pane: le donne setacciavano la farina, lessavano e schiacciavano le patate, si procuravano il lievito e lo ammorbidivano in acqua calda; dopo aver ammassato dividevano l’impasto in pagnotte che avvolgevano in canovacci puliti e le mettevano a lievitare coprendole con panni di lana.
Poi, se non c’era il forno in casa, portavano le pagnotte a cuocere al forno del paese e, prima di metterle nel forno, facevano su ogni pagnotta una croce, come se quello del pane fosse un rito sacro.
Era cotta prima la pizza e successivamente il pane o solo con farina bianca o con l’aggiunta di farina gialla per renderlo più economico. Le donne poi trasportavano a casa il pane mettendolo in testa sopra “la spara” che era un canovaccio arrotolato.

Piatti ancora oggi ricorrenti, tipici del territorio sono: sagne e fagioli, lasagna a natale e a pasqua,, maccheroni alla chitarra, ravioli ricotta e spinaci, pan cotto con le cime di rapa, patate cotte sotto la brace, scamorze arrosto, lesche maritate (uova e pane fritto), u’cascglion (torta di farina di mais) mentre l’uso di legare il pecorino e la ricotta al miele o alla frutta è recente, seppur ripreso dalla cucina dell’antica Roma.
    
Nel corso dell’anno, inoltre, alle diverse ricorrenze sono dedicate usanze specifiche: la domenica delle palme ai bambini viene preparato e donato dai compari u’ sflacc o collana di ciambelline decorate con naspo e confettini, nei matrimoni, la grascia all’uscita dalla chiesa, consiste nel lancio sugli sposi di confetti e soldi, per i battesimi e per tutte le feste vengono preparati i turcnegl’e, i torroncini, le caramelle di mandorle e cacao incartate nelle veline colorate, i sospiri, le scruppelle ecc. A chi ha perso un familiare, il vicinato prepara il consolo (il brodo caldo e il pranzo).

Ricetta dei turcnegl’e

L’impasto preparato con farina, uova, acqua bollita con rosmarino, lievito, semi di anice, sale viene lasciato riposare per diverse ore, finché non risulti cresciuto al doppio e non inizi a mostrare in superficie le ciabbotte, cioè le bolle. Si preparano quindi lunghi tortiglioni, avvolgendoli mano a mano fra pollice e avambraccio opportunamente cosparsi d’olio, Dopodiché si fanno scendere lentamente a spirale in grosse padelle colme d’olio bollente e si friggono.

La zuppa della sposa (che si preparava per gli sposi all’indomani del matrimonio) consisteva in crostini di pane, verdura(in genere indivia lessata e tagliuzzata), scamorza e uova sode tagliate a dadini e polpettine di carne, il tutto mescolato e affogato in un brodo di carne.

 

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